Pesce di Guerra
- giorgiocavagnaro
- 1 dic 2019
- Tempo di lettura: 2 min
Un post su facebook ha riesumato dalla mia memoria, seriamente danneggiata dagli anni che galoppano, un elemento importante della mia giovinezza.
Mia madre, pittrice insigne ma anche cuoca appassionata ed estrosa, battezzava ogni venerdì, o quasi, con la preparazione di un piatto eccezionale, per il rapporto quasi miracoloso tra bontà e semplicità.
La mia famiglia era di osservanza cattolica, almeno nominalmente, e il venerdì non era previsto dal protocollo religioso il consumo di carne. La quale, sia detto per inciso, era anche un impegno economico di una certa rilevanza, per un nucleo di otto persone. Soprattutto perché previsto sul desco prandiale quasi ogni giorno. Allora, siamo a cavallo tra gli anni cinquanta e i sessanta, si credeva ciecamente nel potere quasi taumaturgico della carne rossa nello sviluppo del giovane, reduce dalle vacche magre (è il caso di dirlo) di una guerra atroce. E a casa mia nemmeno le ristrettezze economiche potevano ostacolare il progresso di un boom cui tutti avevano l’obbligo morale di partecipare.
D’altra parte, il pesce fresco sforava i parametri del ridotto budget familiare in modo davvero eccessivo, insostenibile. Al massimo la soglioletta per il bambino, che ero io, ogni tanto.
Ed ecco la soluzione del venerdì. Mamma iniziava a sbucciar patate e a gettarle in un pentolone di acqua bollente. Le patate, lessate a dovere e lasciate raffreddare il giusto, venivano impastate come il calcestruzzo insieme al contenuto di svariate scatolette di tonno ben scolato dall’olio, e a una manciata di capperi che avevano il compito di fornire il necessario quid di un piatto “adulto”.
Io ero addetto alla preparazione dell’indispensabile maionese, da versare a piacere sulle fette del prodotto finito. “Giorgiooo! Continua a girare, che impazzisce!”
Ed ecco a voi il Pesce di Guerra. Lo facevano tutti, ma nessuno tranne noi lo chiamava così. Era noto soprattutto come “Pesce finto”, i più snob avevano addirittura la forma di metallo per configurarlo in guisa di pesce, con un cappero più grosso a fungere da vispo occhietto. Qualcuno azzardava anche una sottile striscia di carota, per evocare la boccuccia del pesce, altri addirittura variegate

squame vegetali
Il nostro no, aveva la forma di un polpettone informe, sobrio e senza concessioni allo spettacolo. Ma ne avrei mangiato un quintale, con tonnellate di maionese ben sana di mente, ve l’assicuro. Ogni santo venerdì.
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