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La seicento di mamma

  • giorgiocavagnaro
  • 22 dic 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

Tutto era cominciato con una festa. Una banalissima festa di fine liceo tra pischelli con un passo già nel mondo dei grandi e con l’utilitaria prestata dalla mamma, perché della berlina paterna non se ne parla nemmeno.

La festa a casa di Alberto era andata come doveva andare, né più e né meno. Casa piccola, saloncino ordinario, pizzette, cocacola e qualche bottiglia di vino, che ormai siamo grandi. Invece siamo piccoli, dei veri bocconi imbranati e l’alcol fa effetto subito. Io, Emilio, lo scrivente, ho bevuto e mi sto divertendo abbastanza, come si divertono i piccoli in preda a quell’ebbrezza nuova, un’euforia che zittisce il maledetto Sabotatore sempre pronto a bloccarti quando rivolgi, chessò, la parola a una ragazza. Anche se le compagne di scuola non sono proprio ragazze vere. Loro pensano di esserlo, ma nella nostra visione del mondo sono tali e quali a noi, solo vestite da donna, strani esseri con cui non si può nemmeno parlare della Roma, che quest’anno fa stringere il culo a tutti.

Con un bicchiere di rosso in più invece, puf! diventano donne pure loro, delle bone come Barbarella e Maria Schneider e io scherzo con loro, che mi riempiono di sorrisi e tanti saluti alla strizza di fare grigie. Poi arriva questa, la sorella piccola di Alberto. Chissà perché comincia a inveire contro di me, che me ne sto beato a cazzeggiare con Simonetta e Tiziana e mi sento finalmente un fico. Forse vuole che smammiamo tutti da casa sua, boh, forse non ce la siamo filata proprio e si è incazzata per quello. Io però ci resto malissimo, all’improvviso non c’è vino che tenga: l’anima è crollata al piano terra come un ascensore rotto. Sai che faccio? Prendo e me ne vado, telo proprio.

Fuori piove e io ho la seicento di mamma. Accendo, parto, ma non mi va di andare a casa, non così. Prima devo riparare l’ascensore, a tutti i costi. Comincio a vagare per la città, che è deserta e si guida che è un piacere, slittando sui sampietrini per quartieri sconosciuti, pieni di semafori gialli che lampeggiano inutilmente.

Questo dev’essere Testaccio, adesso non piove più. E passiamo ‘sto ponte, passiamo, vediamo che c’è dopo. Qualcosa c’è sempre, dopo, e noi andiamo, andiamo. Lo vedi? Qualcosa c’è. Una cicciona tutta truccata che sorride, vuole che mi fermi. E io mi fermo. Vuole salire, sta dicendo “Eccone un altro bisognoso d’affetto!” E io la faccio salire, tutta pizzi neri e rossetto carminio, micidiale, zinne enormi sulla seicento di mamma.

E mo’ che devo fare?

Lei per prima cosa vuole dei soldi, “Lo sai, caro, no?” No, non lo so, meno male che avevo cinquemila lire di riserva, per la benzina.

Adesso ha tirato fuori una specie di bustina di plastica e ci sta soffiando dentro. Io eseguo solo ordini, mi sono abbassato i pantaloni e lei mi infila quel coso sul coso, che esita alquanto a rispondere agli ordini. A quanto pare il coso, quello mio, ha una sua vita indipendente, e non è affatto convinto della piega che stanno prendendo gli eventi.

Ma alla matrona nera importa poco, a quanto pare. La sua massa di capelli è già sopra di me, è inarrestabile fino a quando non ottiene un risultato. Ecco, ora sembra soddisfatta del dovere compiuto e si sta dando una rassettata col rossetto, prima di scendere con insospettata agilità dalla macchina. Mi sorride facendo ciaociao con la manina, già di nuovo al posto di lavoro.

Ha ripreso a piovere, i semafori continuano il loro spettacolo giallo, monotono, replicato dai sampietrini. E’ ora di tornare a casa.



 
 
 

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