La Dofìn
- giorgiocavagnaro
- 27 ott 2019
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La mia famiglia di origine è sempre stata spaccata a metà. I tecnici, ingegneri per lo più, da una parte, gli artisti dall’altra. Le interazioni tra queste due consorterie rivali hanno creato, come si può facilmente immaginare, uno stato di convivenza che i sindacati avrebbero definito efficacemente di conflittualità permanente. I tecnici rivendicavano, con prosopopea, la pretesa superiorità della loro scienza, gli artisti opponevano agli attacchi quotidiani un sottile disprezzo, con altrettanta prosopopea. La quale, evidentemente, era l’unico tratto comune della famiglia, ma purtroppo aiutava poco le relazioni.
Negli anni sessanta, in Italia, l’ebbrezza dell’automobile aveva stregato tutti. “Quattroruote” era una rivista vendutissima, autentica bibbia in materia, la benzina costava poco, non c’erano limiti di velocità e si viaggiava che era un piacere su strade e autostrade nuove di zecca.

A pensarci bene, le automobili erano l’ideale punto d’incontro tra le due fazioni familiari di cui parlavo prima. I tecnici sciorinavano il loro sapere su motori e affini, gli artisti esprimevano il loro originale punto di vista estetico su linee e carrozzerie, allora tondeggianti e sinuose.
C’era una macchina su cui, ricordo, si discuteva parecchio. La Dofìn di qua, la Dofìn di là.
I tecnici la aborrivano, sostenendo che oltre a essere assai poco potente (“un polmone”), era pericolosissima per la sua scarsa tenuta di strada. Inoltre, invadendo campi di non loro stretta pertinenza, i tecnici accusavano la Dofìn di essere straordinariamente brutta. Gli artisti, dal canto loro, non sapevano che pesci prendere, visto che la Renault Dauphine (Delfino in italiano, ah, capricci del caso) era esteticamente molto originale, dunque meritevole di rispetto e attenzione. Ma quella linea da portacipria, che non faceva distinzione tra posteriore e anteriore, irritava spesso anche gli esteti.
Tutti contro la Dofìn, insomma, e pace familiare salva. Per un paio di minuti.
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