La banalità del male - The Irishman
- giorgiocavagnaro
- 29 nov 2019
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 4 dic 2019
Cosa ci racconta The Irishman? Oh, tante cose, cari amici, davvero tante.
Innanzitutto, che Martin Scorsese fa cinema come nessuno fa più, e ci dispiace per gli altri. L’accuratezza delle sue ricostruzioni, la scelta dei caratteri, la direzione del suo gruppo di bravi ragazzi che lo seguono ormai da parecchi decenni è qualcosa che rasenta la perfezione senza che ciò (e può capitare) susciti il minimo fastidio.
Scorsese mette in scena ancora una volta la sporca storia dell’America ripartendo da dove l’aveva lasciata: nelle mani violente degli irlandesi e degli italiani che si erano scannati tra gangs a New York, per il predominio sui vicoli del nuovo mondo, intuendo che dai vicoli al possesso del mondo intero il passo sarebbe stato inevitabile, fatale.
Tutto ciò che vediamo in The Irishman è vero, è vita vissuta, è Storia. E’ l’ennesima prova che la banalità del male, genialmente intuita e descritta da Hannah Arendt seguendo il processo del gerarca nazista Adolf Eichmann, a Gerusalemme, e scrutandone il volto grigio e impassibile, è il tristissimo filo conduttore che lega i destini del nostro viaggio sulla Terra.
Ancora irlandesi, ancora italiani d’America. Sempre più simili, indistinguibili nel groviglio di affari senza più odore ,né razza, né colore che hanno costruito. Solo soldi e potere, in un meccanismo che, una volta avviato, è inarrestabile come un treno impazzito, dal quale si scende solo con un proiettile in fronte.
E’ vero Jimmy Hoffa, lo conoscono tutti. Il leggendario capo del sindacato camionisti d’America, il nemico mortale dei Kennedy. Al Pacino lo interpreta gareggiando col suo eterno compagno di strada Robert De Niro, l’Irishman del titolo, che è vero anche lui, anche se meno famoso. Frank Sheeran si chiamava, il sicario amico di Hoffa ma anche di Russell Bufalino, il boss mafioso di cui Joe Pesci offre un ritratto di qualità superlativa.
E le donne, le mogli e le figlie dei gangster, uno spettacolo nello spettacolo. Sensibili ma distaccate, comprese nella parte che la vita ha loro assegnato: niente sbavature o ribellioni, se non quella di fumare compulsivamente, chiacchierando di chissà che mentre i loro uomini si occupano delle cose serie: affari, potere, omicidi. Tranne Peggy, la figlia dell’irlandese. Lei la banalità del male proprio non riesce ad accettarla.
Sembrano bambini, quelli di loro approdati per puro caso alla vecchiaia, complice il domicilio coatto in prigione. Giocano a bocce, si scambiano battute, circondati dalle solite facce sgherre,

comprimarie di una vita, riuscendo nel miracolo di esprimere comunque umanità. E il lunghissimo addio di Frank Sheeran, l’irlandese che sceglie per sé una bara color verde fiammante, finisce per commuoverci. Perché, alla fine, era un povero, dannato vecchio come diventeremo tutti. Se le cose ci andranno bene.
Grazie, robilombardi. Ho corretto, scherzi dell'età!
No. Hannah Arendt ha seguito il processo ad Eichmann, nel 1961. Quindici anni dopo Norimberga. Per la precisione.