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Douce France

  • giorgiocavagnaro
  • 15 nov 2019
  • Tempo di lettura: 1 min

Quando ero piccolo, avevo una passione smodata per la Francia. Sul perché mi interrogo ancora oggi, probabilmente era una di quelle cotte immotivate che prendono i bambini ma che

, ci scommetto, un bravo psicologo saprebbe dipanare con pazienza.

Intanto, non mi era simpatica l’Italia, forse per lo spirito di contraddizione tipico dei frugoletti che vogliono affermare la propria esistenza, nell’ambito soprattutto di una famiglia che di prosopopea adulta ne aveva a tonnellate. E poi, visto che seguivo allora più il ciclismo del calcio, stravedevo per Anquetil, il biondo campione normanno che vinceva tutto tranne le volate.

C’erano poi Darrigade e Poulidor, Stablinski e Graczyk, i francesi dal nome slavo. Tutti presenti nelle mie palline di plastica colorate, protagoniste di estati che sembravano infinite, sulla riviera adriatica. Ne mancava solo uno: Roger Rivière.

Rivière precipitò in un burrone, nel 1960, inseguendo la maglia gialla di Gastone Nencini, che avrebbe poi vinto quel Tour de France per la gioia di mio fratello che tifava per gli italiani. Il Tour lo seguivo alla radio, e ho ancora memoria dell’angoscia che mi accompagnò nella diretta, zoppicante e intermittente, che raccontava il terribile incidente. Temevo per la morte del mio eroe, lanciato a caccia di una vittoria ormai impossibile, e le notizie non erano per niente buone.

Rivière si salvò, ma la frattura della colonna vertebrale lo portò alla paralisi delle gambe e alla fine della sua carriera, a soli 24 anni.

Mio fratello, a Tour finito, non perdeva occasione per scandirmi sulla faccia i nomi dei suoi campioni vittoriosi: “Primo: Nencini! Secondo: Battistini! Decimo: Massignan!”

Ma se Rivière non cadeva, col cavolo che finiva così.

 
 
 

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