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Capoccia

  • giorgiocavagnaro
  • 22 ott 2019
  • Tempo di lettura: 2 min

Era scuro di pelle. Così scuro che, tra i tanti soprannomi che aveva prima che “Capoccia” prendesse il sopravvento sugli altri, figurava un notevole “Ouagadugu”. Niente razzismo, per carità. Lui era solo un bianco con molta melatonina e negli anni settanta non c’era il clima bastardo che ammorba la nostra esistenza odierna.

Stava al terzo banco e Dario C., dal quarto, gli ammollava sempre la classica scoppoletta sul collo, accompagnata da quella sua risata bonaria e dalla frase “Bella ‘sta capoccetta!” Infatti, se vogliamo essere precisi, il soprannome originario era “Capoccetta”. Che però si rivelò troppo lungo, soprattutto sui campi da calcio, dove bisogna essere sintetici nei richiami e negli insulti.

Capoccia era notevolmente emotivo e nervoso, durante le interrogazioni era preso da una incessante vibrazione alle mani, cosa che portò subito al soprannome di riserva “Tremalnaik”, dal famoso personaggio salgariano.

Non dovete pensare che Capoccia fosse lo zimbello della classe, oh, no. Era simpatico a tutti e si faceva rispettare.

Giocava terzino sinistro e suppliva a non eccelse doti tecniche con grande concentrazione ed impegno agonistico. Menava come un fabbro, insomma. Una volta, smarcato in corsa davanti al portiere, lo trafisse implacabilmente, segnando l’unico gol della sua lunga carriera. Ho ancora nei condotti uditivi l’urlo disperato di quel portiere: “Noooo, Capoccia noooo!!!”

Poi, come si dice in questi casi, le nostre strade si divisero. Capoccia diventò il dottor Sassoli, specialista in medicina interna, e sparì dal mio orizzonte per decenni.

Anzi, una volta lo incontrai per caso: aveva i capelli tutti ricci. Sempre neri come il carbone ma non pettinati come da ragazzo, con la riga a destra. Proprio riccissimi, forse pensava di essere più alla moda, boh.

Qualcuno mi disse poi, passati almeno vent’anni, che i suoi comportamenti non erano più tanto lineari. Che aveva spesso bisogno di soldi e che raccontava storie poco credibili.

Dopo altro tempo, forse un decennio, qualcun altro mi disse: “Ma non lo sai? Capoccia è morto”.

Poche notizie ti scuotono come la morte di un compagno di scuola. Loro sono eterni, come pensiamo di noi stessi, non possono morire così, all’improvviso. Anzi, non possono, non devono proprio.

E poi gli volevo bene, a Capoccia.


 
 
 

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